Testimoni:
Mg23, f. 97r: M ⸱ F ⸱ P ⸱; Pr1, ff. 42v-43r.
Bibliografia: Solerti,
Disperse, pp. 143-144; Barber,
Disperse, pp. 76-77; Costa,
Il codice parmense, p. 87.
Schema metrico: ABBA ABBA CDE CDE
A dispetto di una tradizione molto rarefatta, la lezione del sonetto si restituisce senza gravi difficoltà. Qualche incertezza ha suscitato tra gli interpreti il senso proprio di
stile al v. 12, per quanto sembri evidente che nel sintagma 12
del mondo ogni suo stile la voce abbia il significato di ʻparteʼ (del mondo). Troppo sottile, anzi avventurosa, andrà giudicata la lettura di Barber: «
Stile is from
stilla, part»: soggiace infatti all’inciso una condensatissima memoria di
Rvf 360, 46-53 «Cercar m’à fatto deserti paesi, | fiere et ladri rapaci, hispidi dumi, | dure genti et
costumi, | et ogni error che’ pellegrini intrica, | monti, valli, paludi et mari et fiumi, | mille lacciuoli in ogni parte tesi; | e ’l verno in strani mesi, | con pericol presente et con fatica»; dall’ipotesto si deduce dunque il significato comunissimo ʻcostumeʼ (e dunque ʻluogoʼ), per il quale cfr.
GDLI, ʻStile
1ʼ, 7.
Quella richiamata da ultimo, non è l’unica delle riprese dalla sezione in morte del Canzoniere petrarchesco. Il componimento sembra infatti riferirsi non a un viaggio mondano di madonna, ma alla sua dipartita dalla vita terrena, come conferma il fatto che nella seconda quartina il poeta si rivolge direttamente alla sua anima, e a un suo ritorno alla
patria bella o
nobile paese (sulla scia di
Rvf 289, 3-4 «anzi tempo per me
nel suo paese |
è ritornata […]»). Non si spiegherebbe altrimenti perché, se madonna fosse partita per il luogo natale terreno, il poeta dovrebbe percorrere il mondo intero, e solo alla fine raggiungere una destinazione già nota. Il luogo
dove pria quel lume accese è dunque ʻil Cieloʼ (immagine analoga a
Rvf 295, 11 «che tosto è ritornata ond’ella uscìo») e
serò ha il significato, abbastanza comune, di ʻgiungereʼ (
GDLI, s.v. ʻEssere
1ʼ, 5).
Nell’opposizione
Ondio /
ch/
o cerchato (Pr
1) /
ondio cercho Mg
23, ancora al v. 12, si individua l’unico intoppo che crea qualche difficoltà nella soluzione della sintassi. Apprezzabile ma tutt’altro che risolutiva la congettura del Solerti, che, pur ignorando la testimonianza del Magliabechiano, aveva cercato di divinare
ond’io ò cerco, passato prossimo con participio forte (è quantomeno imprudente, per contro, la cassatura di
suo operata poi da Barber), pure ammissibile sulla base di Mg
23. Per quanto la lezione proposta dal primo editore permetterebbe di armonizzare la testimonianza dei due latori del sonetto, si preferisce una costruzione più coesa della terzina, considerando la lezione di Mg
23 un presente indicativo. Il problema, cardine dell’interpretazione sintattica dei versi conclusivi, è infatti in verità in primo luogo il valore da conferire a
fin(o), al v. 14, che secondo il
topos qui in gioco (l’amante, venuta a mancare l’amata, ne cerca disperatamente le tracce, fino a quando la morte non li ricongiungerà in cielo: vaghi possibili agganci in
Rvf 273; 302; 331; 333), significherà ʻfinchéʼ, ʻfin tanto cheʼ. L’esistenza di questo costrutto con elisione di che è data per assodata dal
GDLI, s.v. ʻFino
2ʼ, 5, ma senza il conforto di alcuna occorrenza, né esso è preso in esame da Mäder,
Le proposizioni temporali, pp. 72-84: esso ha tuttavia riscontro in
Boccaccio, Am. Vis. XXX, 72: «ched e’ non ci fallisca punto infino | entrati sarem là […]». Stando a questa interpretazione che si offre a testo, dunque, si conferma
cerco come presente indicativo, e si parafraserà la terzina ʻond’io, con passi lagrimosi, cerco del mondo ogni sua parte per vedere lei, fino a che non morirò, raggiungendola in paradisoʼ. Meno convincente sarebbe avvicinarsi alla proposta di Solerti spiegando
cerco come participio semplice e dando al periodo da esso retto il valore di incidentale (ʻdopo aver cercato del mondo ogni suo stileʼ). Lo scioglimento delle terzine che ne conseguirebbe non risulta infatti altrettanto efficace, in quanto implicherebbe la dichiarazione iperbolica di voler cercare l’amata giungendo fino in paradiso (ʻond’io, dopo aver cercato ogni parte del mondo, con gli occhi pieni di lacrime, giungerò per vederla fin dove per la prima volta fu generata, cioè in Cieloʼ), poco consona al contesto tematico.
Al v. 3 non è il caso di accogliere la congettura prudenzialmente relegata in apparato dal primo editore,
s’adona, contro
s’addorna del testo tràdito: la formula trova infatti appoggio in
Cavalcanti, Deh, spiriti miei, quando mi vedete, vv. 3-4 «come non mandate | fuor della mente parole
adornate |
di pianto, dolorose e sbigottite?» e idealmente anche in
Rvf 356, 11 «e
di lagrime honeste il viso
adorna». Allo stesso modo va respinta la banalizzante 4
fu partita (confluita anche nell’ed. Barber), e accolta la lezione concorde del testimoniale fa partita, ʻfa partenzaʼ, ovvero ʻparteʼ, con composto ben documentato in testi esemplari della tradizione lirica, cfr. ad esempio Guinizelli,
Madonna, il fino amor ched eo ve porto, v. 43 «da me fanno partut’ e vène in voi»; Cino,
Sì m’ha conquiso la Selvaggia gente, v. 9 «ch’io voglio innanzi che faccia partita | l’anima dallo cor […]» (cfr. altri esempî nel
GDLI, s.v., ʻPartita
2ʼ).
Potrebbe infine destare qualche dubbio
movei al v. 8, retto a distanza (v. 6) da
alma: l’accordo dei due testimoni e l’ipotesto petrarchesco che in tutta evidenza l’autore ha voluto riformulare (
Rvf 352, 1-2: «Spirto felice che sì dolcemente | volgei quelli occhi») sono però garanzia sufficiente per non forzare il testo tràdito. Il modulo varia inoltre il particolare impiego del tema dell’
ubi sunt caratteristico di
Rvf 299.
Se in entrambe le sillogi il sonetto si colloca tra altri dei
Fragmenta, solo in Mg
23 l’attribuzione è esplicita. Qui è d’altronde rilevante che il componimento trovi il suo posto, tra
Rvf 24 e 34, seguendo immediatamente SP103: alla luce di tale posizione e della spiccata somiglianza del v. 5 (
O cara speme mia ove sè gita?) con l’
incipit di quest’altro sonetto (
O cara luce mia dove sè gita?) sembra evidente un rapporto di imitazione, probabilmente del nostro sonetto verso
O cara luce mia, data la fortuna larga del testo che risulta dalla ragguardevole diffusione nella tradizione manoscritta. In Pr
1, diversamente, il sonetto si trova adespoto ma incastonato entro una coppia di testi del Canzoniere,
Rvf 353 e 352.