SP046

   Alto intellettoil qual durandogodo

che non son quelli studi ancor dispersi

quai discerner fan noicon gli occhi tersi,

in matera mortal tra 'l perso e 'l biodo,


   dubio qual à Pompeo di magiur lodo,

se 'l ver cantan de lui tragidi versi:

o l'uom fermo sentir di casi adversi,

o nei prosperi eventi servar modo.


   Prima la sofferenza par più cara,

s'al maleonde sen fugge omne natura,

costei ce fa costante a tener gara;


   econtrain gioia passata mesura

a Cirroa Turno e ad altri costò cara,

che mai dieder le spalle a cosa dura.


Testimoni:
g
      Bd, f. 141bisr
      g2
            Cp392, f. 190v-191r
            g3 (Tou2102, f. 132v; V4784, f. 127v).

Mc1, f. 133v [attr. collettiva f. 129r: Di M(esser) Franc(esc)o Pethrar(ca)].

Bibliografia: Solerti, Disperse, p. 144; Barber, Disperse, pp. 112-13; Vattasso, Cod. petr. Vat., p. 188.

Schema metrico: Sonetto ABBA ABBA CDC DCD
      Destinatario di questa rima di corrispondenza è l’alto intelletto richiamato dal vocativo incipitario – da cui dipende tutta la prima quartina –, cultore degli studi storici e filosofici che permetteranno di risolvere il dubbio del proponente con limpida chiarezza (l’espressione discernere tra il perso e il biodo varia, a fini di rima, quella altrimenti attestata «il perso e il bianco»: TLIO ad vocem perso (1) sign. 3.1 e 3.2). L’interrogativo in oggetto, se sia più onorevole reagire impassibilmente alle avversità o sobriamente alle prosperità, costituisce in effetti un remedium utriusque fortune in miniatura: non fa perciò meraviglia che il testo sia stato attratto nell’orbita di Petrarca e che Mc1 lo abbia espressamente accolto come suo.
      È additato quale exemplum di stoica virtù in entrambe le situazioni Pompeo Magno, personaggio di proverbiale austerità, citato come modello sommo di pazienza e di temperanza da Petrarca stesso (Sen. IV 1, §82-89 e 96-100; più vagamente Cicerone, Manil. 36-42). Ma i tragici versi alla cui autorità ci si rimette se ’l ver cantan di lui, secondo una formula altrove reperibile (Alberto della Piagentina, L. 4, 7 v. 21 [174.21] «Se ’l vero scrive Ovidio e Virgilio», ma si pensi anche a Inf. XXVIII 12), non possono essere di altri che di Lucano: della forza d’animo di Pompeo al momento di morire si legge a Phars. VIII 613-636 (in partic. 625-627: «fata tibi longae fluxerunt prospera vitae | ignorant populi, si non in morte probaris, | an scieris adversa pati»), mentre, del suo equilibrio, nell’elogio pronunciato da Catone a IX 190-214 (in partic. 201-202: «casta domus luxuque carens corruptaque numquam | fortuna domini»); ma si ricordano i suoi rovesci di fortuna anche a VIII 701-708 e altrove, sebbene molto calzante per la prima terzina paia specialmente il luogo, in verità non riferito a Pompeo, pronunciato da Catone a Phars. IX 403, «gaudet patientia duris».
      Chiaro dunque il senso generale, svariati elementi minori si prestano a scelte alternative. Al v. 8 è infatti sicuro che il sintagma prosperi versi indichi le vicende favorevoli, e tuttavia solleva irresistibili dubbi non tanto l’assenza di attestazioni del lemma verso in tale significato, che potrebbe essergli assegnato per estensione, come participio del lat. vertĕre , “rivoltare” (cfr. it. “rivolgimento”), quanto l’occorrenza, in sede rimica B, di versi : adversi, che perciò denuncia il successivo prosperi versi quale errore di ripetizione. Mentre Vattasso conserva il testo tradito (come pure Barber, che però interpreta versi in senso metapoetico), è facile, per il fecondo ingenium di Solerti, riassestare il luogo in «prosperi [e]ve[nt]i», congettura felice che accolgo; si noti tuttavia che, a fronte della assoluta rarità della voce evento in italiano antico, un’eventuale soluzione «prosperi [t]e[mp]i», più scialba, avrebbe però, dalla sua, numerose occorrenze della iunctura. Orienta lievemente la riflessione in direzione di questa seconda opzione anche l’identificazione di un preciso ipotesto del verso, non da Lucano, come dovremmo aspettarci, ma da Virgilio, Aen. X 501-502, «Nescia mens hominum fati sortisque futurae | et servare modum, rebus sublata secundis», ove i rovesci di fortuna di Turno (che qui si stanno per ricordare a v. 13) sono indicati appunto come tempus, vv. 503-504: «Turno tempus erit, magno cum optaverit emptum | intactum Pallanta».
      L’interrogativa indiretta dipendente da dubio, al v. 5, si manifesta diversamente nei testimoni: in Bd qual a Pompeo di magiur lodo, da intendersi “qual à”, in g2 quale a Pompeo, scioglibile anche come “qual è a” (così Vattasso e Barber). Nessuna delle due soluzioni persuade Mc1, che integra qual fu a Pompeo, e a tutte queste ne preferisce una ulteriore Solerti, che, ritoccando di in da, legge «dubbio quale a Pompeo dà maggior lodo». Scartati questi emendamenti, non necessari sia pure efficaci, fra le due varianti della tradizione antica seguo come sempre Bd, anche alla luce della valutazione che la lezione di g2 è riducibile all’altra (quale a, “quale à”), mentre non è vero l’opposto (qual a ≠ “qual è a”).
      Suscita maggiori difficoltà il v. 7, dove i mss. di g leggono concordi, con trascurabili varianti grafiche, «oluom fermo sentir di casi aduersi». Mc1, verosimilmente con autonoma iniziativa, ritocca in «o l’huom fermo [a] sentir de’ casi aduersi», ma tale integrazione, accolta da tutti gli editori (in Barber anche o emendata in e per fraintendimento del senso generale), pare peggiorare anziché migliorare il testo: il dilemma della virtù più lodevole di Pompeo è infatti strutturato in due proposizioni correlative disgiuntive, dove convertire il primo elemento in un infinito preposizionale (o [a] sentir) spezzerebbe il parallelismo con il secondo, sicuramente non preposizionale (o sentir... o servar). Pacifico il segmento «sentir di casi adversi», confortato dalle svariate attestazioni nei corpora del sintagma sentire (di) avversità, così come l’attributo «fermo», ricorrente anche altrove a proposito della leggendaria ‘fermezza’ di Pompeo in punto di morte, resta da spiegare il problematico l’uom. Si può escludere senz’altro la tipica funzione di pron. pers. indefin. che riempie la posizione del soggetto nelle frasi impersonali esplicite, con verbi di modo finito, perché si ha qui una frase implicita, all’infinito, non richiedente espressione della persona. In assenza di un’efficace alternativa congetturale si dovrà dunque intendere uom nel suo significato lessicale proprio, come co-referente anaforico di Pompeo: la soluzione, che non dissolve ogni dubbio perché sovrabbondante e apparentemente tautologica, non sarà però del tutto inappropriata nel contesto morale del sonetto, dove i valori del vir Pompeo sono modello comportamentale di una più ampiamente condivisa assiologia degli uomini. Di questa costruzione infinitiva con soggetto espresso, alla latina, registro poi alcuni esempi di frasi disgiuntive in volgarizzamenti, di cui il primo notevolmente combaciante con quello di nostro interesse:
Deca quarta di Tito Livio, [VI.9] - vol. 6, pag. 23, r. 2
«E il re incominciò da ogni parte ad oppugnare le mura della città. [XXXVI.9.10] E a coloro li quali assai intendeano, non era alcuno dubbio nello avvenimento di quella città essere posto, la quale prima assalito avea, o lui essere da l’universa gente di Tessaglia sprezzato, o essere temuto»
[I.48] - vol. 5, pag. 95, r. 7
«[XXXI.48.8] perocché, se senza il consolo niuna cosa fare si conveniva, discernerassi o il senato avere fallito, il quale diede l’esercito al pretore [...], o discernerassi avere fallito il consolo».
      La formula avversativa in principio della seconda terzina, anziché come una preposizione che regge il v. 12 (Barber: «E, contra in gioia passata misura,»), è da intendersi come avverbiale e dunque ‘assoluta’, giusta Solerti e Vattasso. Ma se il primo vi ravvisa uno svolgimento incidentale («E, contra,»), è Vattasso, che mette a testo «e contra» in corsivo, a additare la soluzione corretta: la lezione è infatti certamente il lemma econtra, erede del latino postclassico e contra o econtra (“viceversa”, TLIO ad vocem).
      Venendo agli aspetti formali, i testimoni ‘alti’ Bd e Cp392 concordano in una variante linguistica eccentrica, tragidi versi, che dunque solo per rettifica sua g3 riconduce a quella più prevedibile tragici, mentre Mc1 trascrive tragedi con un ritocco sulla e che, in verità con scarsa convinzione, la passa a i. Gli editori sono unanimi in tragici, ma non si può parlare di vera e propria scelta, se Vattasso si fonda su V4784 e Solerti consulta, oltre a quello, soltanto Mc1 con la sua ambigua lezione. La forma tràgido non annovera altri esempi, mentre ovviamente ben documentato è tragèdo, preferibilmente sostantivo riferito a autori e attori, come nel significato moderno, ma attestato anche in uso aggettivale con riferimento a stile e, come qui, a versi (vd. GDLI ad vocem sign. 3, con esempi da Boccaccio e Alberti). È un atto di cautela graziare questo unicum, che doveva aver persuaso anche l’attivo Mc1, a svantaggio dell’ovvia facilior tragici. Così conservo pure al v. 11 la forma plurale costante, “costanti”, poiché si trovano in umbro innumerevoli occorrenze del plurale in -e per nomi e agg. maschili (il tipo Rohlfs §365, con esempi proprio dall’umbro), fra cui decine nei soli Statuti perugini del 1342, e di cui mi limito a riportare alcuni esempi in poesia lirica:
Neri Moscoli, Rime, 32 v. 8 «mostrali ei dente con sòn che li spiace»; 55 vv. 12-14 «Perfetto e puro amor tal voler pose | ne l’alma; e ben che siano ei penser mòbele, | questo sirà col suo podere immòbele» (protetto da rima); 80 v. 2 «me passò ’l cor lanciando ei darde soie»
Marino Ceccoli, Rime, 3 v. 1, «A la dolce stasón ch’ei torde arvegnono»
Poes. an. perug. Piovete, cieli, di chiarezza fiumi vv. 55-57 «Io te pur piango cità con dolore | che vecgio contra te irate ei cieli | che te sumergeran ne le triste ore» e vv. 240-242 «Acqua non veggio che ’l diffecto lave | de quei ch’en libertà fuor guida e duce | esser conducte nei tormente grave» (protetto da rima).
      Per la stessa ragione è certamente da conservare la forma Cirro con geminazione, attestata in svariate occorrenze anche in rima («morte di Dario, d’Alessandro e Cirro, | di Giugurta, e di Pirro» in Udirò tuttavia senza dir nulla? di Gano da Colle, vv. 31-32).
      L’apparato di Solerti è mai difettoso come per questo testo: al v. 4 l’erroneo bio[n]do è solo in Mc1, e non anche in V4784 come da lui segnalato, mentre la sua collazione di Mc1, forse compiuta tramite trascrizione procurata da altri, consta integralmente di errori di lettura. Fuorviante la traduzione inglese fornita da Barber.
1 il qual] al qual Cp392 p(er) che Tou2102
2 studi] studi/i/ Bd ~ ancor] anco/r/ Bd
3 quai] qual Cp392 ~ fan] fa Tou2102
4 e ’l biodo] e biondo (croce in mrg.) Mc1
5 qual à] quale a g2 qual fu a Mc1
6 tragidi] tragici (/g/tragici V4784) g3 trag/e/di → (t) Mc1
7 sentir] senti/e/r Tou2102 a sentir Mc1 ~ di] de’ Mc1
8 eventi] uersi g Mc1
9 par] per Tou2102
10 fugge] fuggi g2-Tou2102
11 a tener gara] al tener chiara Mc1
12 econtra] Et contra g-Cp392
13 a Turno] atarno Cp392 a Torno g3 ~ e ad altri] adaltri (e om.) Cp392 et altri (ad om.) V4784 Mc1