Testimoni:
g
Bd, f. 141bisr
g2
Cp392, f. 190v-191r
g3 (Tou2102, f. 132v; V4784, f. 127v).
Mc1, f. 133v [attr. collettiva f. 129r: Di M(esser) Franc(esc)o Pethrar(ca)].
Schema metrico: Sonetto ABBA ABBA CDC DCD
Destinatario di questa rima di corrispondenza è l’
alto intelletto richiamato dal vocativo incipitario – da cui dipende tutta la prima quartina –, cultore degli studi storici e filosofici che permetteranno di risolvere il dubbio del proponente con limpida chiarezza (l’espressione
discernere tra il perso e il biodo varia, a fini di rima, quella altrimenti attestata «il perso e il bianco»: TLIO
ad vocem perso (1) sign. 3.1 e 3.2). L’interrogativo in oggetto, se sia più onorevole reagire impassibilmente alle avversità o sobriamente alle prosperità, costituisce in effetti un
remedium utriusque fortune in miniatura: non fa perciò meraviglia che il testo sia stato attratto nell’orbita di Petrarca e che Mc
1 lo abbia espressamente accolto come suo.
È additato quale
exemplum di stoica virtù in entrambe le situazioni Pompeo Magno, personaggio di proverbiale austerità, citato come modello sommo di pazienza e di temperanza da Petrarca stesso (
Sen. IV 1, §82-89 e 96-100; più vagamente Cicerone,
Manil. 36-42). Ma i tragici versi alla cui autorità ci si rimette
se ’l ver cantan di lui, secondo una formula altrove reperibile (
Alberto della Piagentina, L. 4, 7 v. 21 [174.21] «Se ’l vero scrive Ovidio e Virgilio», ma si pensi anche a
Inf. XXVIII 12), non possono essere di altri che di Lucano: della forza d’animo di Pompeo al momento di morire si legge a
Phars. VIII 613-636 (in partic. 625-627: «fata tibi longae fluxerunt
prospera vitae | ignorant populi, si non in morte probaris, | an scieris
adversa pati»), mentre, del suo equilibrio, nell’elogio pronunciato da Catone a IX 190-214 (in partic. 201-202: «casta domus luxuque carens
corruptaque numquam | fortuna domini»); ma si ricordano i suoi rovesci di fortuna anche a VIII 701-708 e altrove, sebbene molto calzante per la prima terzina paia specialmente il luogo, in verità non riferito a Pompeo, pronunciato da Catone a
Phars. IX 403, «gaudet patientia duris».
Chiaro dunque il senso generale, svariati elementi minori si prestano a scelte alternative. Al v. 8 è infatti sicuro che il sintagma
prosperi versi indichi le vicende favorevoli, e tuttavia solleva irresistibili dubbi non tanto l’assenza di attestazioni del lemma
verso in tale significato, che potrebbe essergli assegnato per estensione, come participio del lat.
vertĕre , “rivoltare” (cfr. it. “rivolgimento”), quanto l’occorrenza, in sede rimica B, di
versi : adversi, che perciò denuncia il successivo
prosperi versi quale errore di ripetizione. Mentre Vattasso conserva il testo tradito (come pure Barber, che però interpreta
versi in senso metapoetico), è facile, per il fecondo
ingenium di Solerti, riassestare il luogo in «prosperi [e]ve[nt]i», congettura felice che accolgo; si noti tuttavia che, a fronte della assoluta rarità della voce
evento in italiano antico, un’eventuale soluzione «prosperi [t]e[mp]i», più scialba, avrebbe però, dalla sua, numerose occorrenze della
iunctura. Orienta lievemente la riflessione in direzione di questa seconda opzione anche l’identificazione di un preciso ipotesto del verso, non da Lucano, come dovremmo aspettarci, ma da Virgilio,
Aen. X 501-502, «Nescia mens hominum fati sortisque futurae | et
servare modum, rebus sublata
secundis», ove i rovesci di fortuna di Turno (che qui si stanno per ricordare a v. 13) sono indicati appunto come
tempus, vv. 503-504: «Turno
tempus erit, magno cum optaverit emptum | intactum Pallanta».
L’interrogativa indiretta dipendente da
dubio, al v. 5, si manifesta diversamente nei testimoni: in Bd
qual a Pompeo di magiur lodo, da intendersi “qual à”, in
g2 quale a Pompeo, scioglibile anche come “qual è a” (così Vattasso e Barber). Nessuna delle due soluzioni persuade Mc
1, che integra
qual fu a Pompeo, e a tutte queste ne preferisce una ulteriore Solerti, che, ritoccando
di in
da, legge «dubbio quale a Pompeo dà maggior lodo». Scartati questi emendamenti, non necessari sia pure efficaci, fra le due varianti della tradizione antica seguo come sempre Bd, anche alla luce della valutazione che la lezione di
g2 è riducibile all’altra (
quale a, “quale à”), mentre non è vero l’opposto (
qual a ≠ “qual è a”).
Suscita maggiori difficoltà il v. 7, dove i mss. di
g leggono concordi, con trascurabili varianti grafiche, «oluom fermo sentir di casi aduersi». Mc
1, verosimilmente con autonoma iniziativa, ritocca in «o l’huom fermo [a] sentir de’ casi aduersi», ma tale integrazione, accolta da tutti gli editori (in Barber anche
o emendata in
e per fraintendimento del senso generale), pare peggiorare anziché migliorare il testo: il dilemma della virtù più lodevole di Pompeo è infatti strutturato in due proposizioni correlative disgiuntive, dove convertire il primo elemento in un infinito preposizionale (
o [a] sentir) spezzerebbe il parallelismo con il secondo, sicuramente non preposizionale (
o sentir... o servar). Pacifico il segmento «sentir di casi adversi», confortato dalle svariate attestazioni nei corpora del sintagma
sentire (di) avversità, così come l’attributo «fermo», ricorrente anche altrove a proposito della leggendaria ‘fermezza’ di Pompeo in punto di morte, resta da spiegare il problematico
l’uom. Si può escludere senz’altro la tipica funzione di pron. pers. indefin. che riempie la posizione del soggetto nelle frasi impersonali esplicite, con verbi di modo finito, perché si ha qui una frase implicita, all’infinito, non richiedente espressione della persona. In assenza di un’efficace alternativa congetturale si dovrà dunque intendere
uom nel suo significato lessicale proprio, come co-referente anaforico di Pompeo: la soluzione, che non dissolve ogni dubbio perché sovrabbondante e apparentemente tautologica, non sarà però del tutto inappropriata nel contesto morale del sonetto, dove i valori del
vir Pompeo sono modello comportamentale di una più ampiamente condivisa assiologia degli uomini. Di questa costruzione infinitiva con soggetto espresso, alla latina, registro poi alcuni esempi di frasi disgiuntive in volgarizzamenti, di cui il primo notevolmente combaciante con quello di nostro interesse:
Deca quarta di Tito Livio, [VI.9] - vol. 6, pag. 23, r. 2
«E il re incominciò da ogni parte ad oppugnare le mura della città. [XXXVI.9.10] E a coloro li quali assai intendeano, non era alcuno dubbio nello avvenimento di quella città essere posto, la quale prima assalito avea,
o lui essere da l’universa gente di Tessaglia
sprezzato, o essere temuto»
[I.48] - vol. 5, pag. 95, r. 7
«[XXXI.48.8] perocché, se senza il consolo niuna cosa fare si conveniva,
discernerassi o il senato avere fallito, il quale diede l’esercito al pretore [...],
o discernerassi avere fallito il consolo».
La formula avversativa in principio della seconda terzina, anziché come una preposizione che regge il v. 12 (Barber: «E, contra in gioia passata misura,»), è da intendersi come avverbiale e dunque ‘assoluta’, giusta Solerti e Vattasso. Ma se il primo vi ravvisa uno svolgimento incidentale («E, contra,»), è Vattasso, che mette a testo «e contra» in corsivo, a additare la soluzione corretta: la lezione è infatti certamente il lemma
econtra, erede del latino postclassico
e contra o
econtra (“viceversa”,
TLIO ad vocem).
Venendo agli aspetti formali, i testimoni ‘alti’ Bd e Cp392 concordano in una variante linguistica eccentrica,
tragidi versi, che dunque solo per rettifica sua
g3 riconduce a quella più prevedibile
tragici, mentre Mc
1 trascrive
tragedi con un ritocco sulla
e che, in verità con scarsa convinzione, la passa a
i. Gli editori sono unanimi in
tragici, ma non si può parlare di vera e propria scelta, se Vattasso si fonda su V4784 e Solerti consulta, oltre a quello, soltanto Mc
1 con la sua ambigua lezione. La forma
tràgido non annovera altri esempi, mentre ovviamente ben documentato è
tragèdo, preferibilmente sostantivo riferito a autori e attori, come nel significato moderno, ma attestato anche in uso aggettivale con riferimento a stile e, come qui, a versi (vd.
GDLI ad vocem sign. 3, con esempi da Boccaccio e Alberti). È un atto di cautela graziare questo
unicum, che doveva aver persuaso anche l’attivo Mc
1, a svantaggio dell’ovvia facilior
tragici. Così conservo pure al v. 11 la forma plurale
costante, “costanti”, poiché si trovano in umbro innumerevoli occorrenze del plurale in -
e per nomi e agg. maschili (il tipo Rohlfs §365, con esempi proprio dall’umbro), fra cui decine nei soli
Statuti perugini del 1342, e di cui mi limito a riportare alcuni esempi in poesia lirica:
Neri Moscoli,
Rime, 32 v. 8 «mostrali ei
dente con sòn che li spiace»; 55 vv. 12-14 «Perfetto e puro amor tal voler pose | ne l’alma; e ben che siano ei penser
mòbele, | questo sirà col suo podere immòbele» (protetto da rima); 80 v. 2 «me passò ’l cor lanciando ei
darde soie»
Marino Ceccoli,
Rime, 3 v. 1, «A la dolce stasón ch’ei
torde arvegnono»
Poes. an. perug.
Piovete, cieli, di chiarezza fiumi vv. 55-57 «Io te pur piango cità con dolore | che vecgio contra te
irate ei cieli | che te sumergeran ne le triste ore» e vv. 240-242 «Acqua non veggio che ’l diffecto lave | de quei ch’en libertà fuor guida e duce | esser conducte nei
tormente grave» (protetto da rima).
Per la stessa ragione è certamente da conservare la forma
Cirro con geminazione, attestata in svariate occorrenze anche in rima («morte di Dario, d’Alessandro e
Cirro, | di Giugurta, e di Pirro» in
Udirò tuttavia senza dir nulla? di Gano da Colle, vv. 31-32).
L’apparato di Solerti è mai difettoso come per questo testo: al v. 4 l’erroneo
bio[n]do è solo in Mc
1, e non anche in V4784 come da lui segnalato, mentre la sua collazione di Mc
1, forse compiuta tramite trascrizione procurata da altri, consta integralmente di errori di lettura. Fuorviante la traduzione inglese fornita da Barber.