SP095

   Nel tempo quando l'aere se descioglie

dai frigidi vapor'e i raggi belli

schiarano el mondoe gli amorosi ucelli

destan lor canti su le verde foglie;


   e quando l'erba in ramo se racoglie

sotto le piante di li fior' novelli,

che ridon tutti ei gioveni arboscelli

scampate fuor de le gelate voglie,


   alor revederò tua bella luce

e toccherò le gratïose mano
da le qual so' stat' io troppo lontano;


   udirò quel cantar soave e piano

e l'amorose e dolce note nove,

quando l'aròperché lontan me trove.


Testimoni:
§π§
      Pr1, f. 25v: Sonetto;
      g
            Bd, f. 141v-141vbisr
            g2
                  Cp392, f. 190v
                  g3 (Tou2102, f. 132v; V4784, f. 127r-v).

Bibliografia: Solerti, Disperse, pp. 172-73; Vattasso, Cod. petr. Vat., p. 187; Vattasso, Otto sonetti, p. V.

Schema metrico: Sonetto ABBA ABBA (C)DD DEE
      La lezione dei testimoni procede compatta e senza difficoltà fino ai due versi finali, laddove inciampa in un’infrazione metrica che, lasciando in entrambi i rami un verso irrelato, denuncia un problema testuale: in g abbiamo CDD DEE (luce : mano : lontano : piano : nove : trove), mentre in Pr1 CDD DCE (luce : mano : lontano : piano : voce : trovo, con rima siciliana luce : voce che occorre in Guittone, O donne mie, merzé, considerate, vv. 14-15).
      Le due distinte configurazioni sono evidentemente risultato del tentativo, di uno dei due, di rimediare malamente a un problema: o di Pr1, che avrebbe sostituito note nove con nuove voce, per accoppiare la rima C di v. 9; o viceversa di g, che avrebbe trovato un abbinamento al trovo finale coniugandolo al congiuntivo -ove e avanzando nuove in fine di verso. Delle due, questa seconda ricostruzione sembra meno agevole, poiché non vi sarebbe stato motivo di mutare voce in note, e dunque ci aspetteremmo, rispetto alla lezione di Pr1, un mero scambio nuove voce > voce nuove; ma è evidente il grado di aleatorietà di una simile valutazione in assenza di informazioni sul decorso dell’errore.
      Proprio dal momento che g e Pr1 offrono diverse situazioni di partenza, entrambe inaccettabili, le possibilità logiche di intervento sono numerose (tanto più se si tiene conto della doppia alternativa di rima E, -ove vs. -ovo), e sarebbe inutile enumerarle: basti dire che, se la terna in rima D mano : lontano : piano dei vv. 10-12 è corretta, allora l’errore è da ravvisare nell’infrazione di una complementare terna C, ora spezzata: l’ipotetico originale sarebbe dunque con terzetti su due rime, e dunque, a partire da Pr1, dovremmo emendare in CDD DC[C], oppure, a partire da g, in [E]DD DEE (così indicato per agevolare il confronto con lo schema di g offerto supra, ma ovviamente in questo caso E andrebbe segnato come C, vd. anche fra poco).
      Se invece fosse la stessa terna in rima D a essere frutto di un allineamento innovativo, allora ci troveremmo in presenza di un originale con terzetti su tre rime, e dunque ancora, a partire da Pr1, gli schemi più plausibili sarebbero CD[E] DCE oppure C[E]D DCE (anche qui, E andrebbe indicato come D e D come E); e invece, a partire da g, CDD [C]EE o CD[C] DEE.
      Fra le ipotesi formulabili, la più ovvia è senz’altro al v. 12 soave e [dóce], “dolce” (: luce; seguendo g, dunque con nove : trove ai vv. 13-14), che però è interdetta dalla presenza di dolce proprio al successivo v. 13, a meno che non si voglia postulare a monte una commutazione di dolce e piano fra v. 12 e v. 13. Il lemma occorre qui in Pr1 proprio nella variante doicie, con riduzione del nesso consonantico, coincidenza che rende verosimile la congettura; e tuttavia va segnalato che si tratterebbe dell’unica occorrenza in poesia antica di tale forma in sede di rima. Sempre stando con la trad. umbra, ma su due rime, restituirebbe una triade C un emendamento a v. 9 tu[e] bell[e prove] (: nove : trove), nell’accezione registrata dal GDLI sign. 5 di «sembianze, aspetto esteriore», che parrebbe tuttavia veramente comune solamente in senso negativo (es. «false prove», «cambiare prove»). Seguendo invece Pr1, sarebbe pertinente con il tema della lontananza una congettura ancora a v. 12, Udirò quel cantar soave [a provo], “da vicino” (come in Inf. XII 93, vd. TLIO, aprovo (1)), in rima con trovo, che, a differenza delle due precedenti, è ipotesi forte di una facile e evidente causalità (soave a provo banalizzato in soave e piano, tipica iunctura).
      Quanto poco feconda sia una simile impostazione ‘combinatoria’ del problema è tuttavia evidente poiché nulla impone che l’innovazione sia così circoscritta, e che basti un intervento ‘chirurgico’ a porvi rimedio. Al contrario, è plausibile che la rima baciata finale di g costituisca il distico di un sonetto caudato, i cui sedici versi sarebbero stati ridotti ai quattordici canonici – vale a dire CDD D[CC] EE – secondo una casistica osservabile in parte della tradizione di SP141 (dove però i punti di sutura sono vistosi, contrariamente al caso in oggetto). E ancor più va osservato, a questo proposito, come il conclusivo v. 14 rassicuri molto poco circa la sua attendibilità, e ciò al di là della pura questione rimica: la versione tràdita da g, quando l’arò, perché lontan me trove, con l’arò riferito al canto e alle note, “avrò quel canto” = “potrò ascoltarlo”, si presenta come un malfatto rattoppo, semanticamente vaporoso. L’altra di Pr1, quanto l’aere per cui lontan mi trovo, da intendersi forse “voci amorose e dolci e rinnovate, | così come sarà (in primavera) l’aria che mi separa da madonna”, sembrerebbe cavillosa, se non vi si trovasse un calzante riscontro in Rvf 129, v. 60, «quanta aria dal bel viso mi diparte». La soluzione grandemente più probabile mi pare tuttavia che quando laro / quanto laere, con il suo -a/er(e) finale, adombri un verbo all’infinito, retto da Udirò del v. 9, e a sua volta reggente perché con funzione dichiarativa (GDLI ad vocem sign. 8), che renderebbe puntualmente ragione anche del congiuntivo trove: per esempio [querelare], che però non è direttamente attestato prima del sec. XV, o persino il meno ovvio sinonimo [guaiolare], “lamentarsi” ([condolere] è invece quasi sempre pronominale), “udirò quel cantar soave e quelle dolci note... lamentare che (ora) io mi trovi lontano”.
      La presenza di un archetipo è dunque indiscutibile, e nonostante ciò, dati gli elementi enunciati, non è possibile identificare esattamente una singola sede di errore per recintarla con cruces: la certezza espressa da Solerti e dunque da Vattasso, Cod. petr. Vat. che a essere guasta sia la seconda terzina sembra guardare piuttosto a questo sibillino quando laro, che non al problema del verso irrelato; e perciò sembra più equilibrata la posizione di Vattasso, Otto sonetti, che si limitava a segnalare l’assenza della rima fra v. 9 e gli ultimi due versi.
      La presenza al v. 8 sia in g che in Pr1 di scampate accordato con nome maschile ei gioveni arboscelli ci avvicina, per l’originale del testo, alla lingua tipica di g, in cui il fenomeno è ricorrente (SP046, v. 11 ce fa costante; SP056 v. 8 in apparato li fati extreme). Anche alla luce di questa considerazione, si offre la lezione di questo insanabile testo secondo Bd.
1: 4: 5: 8 -oglie] -ogli/e/ : -ogli/e/ : -ogli : -ogli V4784 1 quando] om. e agg. da mano seriore Cp392 ~ l’aere] laer (laher Cp392) g2 laier Pr1 ~ descioglie] disciogli/e/ V4784
2 e i] i (e om.) Cp392
4 su le] in sulle Pr1
5 ramo] rami Tou2102
6 de li fior] di fiori
8 de le] dalle Pr1
10-11 le gratiose mano | da le qual] lagratiosa mano | Dalla qual Pr1 11 so’ stat’io] so stat/o/ io Bd stato son Pr1
12 soave] suaui → a.m. suaue Cp392
13 dolce] dolce → a.m. dolci Cp392 ledolce (+1) Tou2102 ~ note nove] e nuoue uocie
14 quando l’arò perché] Quanto laere p(er)chui Pr1 ~ trove] trouo g3 Pr1