SP176

   Malvagiainiquadisdegnosa e rea,
crudel madonna dil mio tristo core,
qual superbo volerqual falso errore
vi fa ver' me ritrosaaspra e iudea?

   Non ve hoi sempre adorata per mia dea,
e più servato il vostro cha il mio honore?
Non ve hoi mostrato sempre honesto amore,
e riverita più che Cytharea?

   Non per diffecto certo che in me sia,
gli ochipietosi e dolci ad ogni gente,
da me volgete sdegnati e fieri

   che acerbo fine al mio duol morte fia.
Ma fateme dispecto arditamente:
morte o mercé non fia mai che i' non spieri.


Testimoni:
L17, f. 68v (> L41.2, f. 46va)

Bibliografia: Solerti, Disperse, pp. 233-34.

Schema metrico: Sonetto ABBA ABBA CDE CDE
      L17 e il suo descriptus si distinguono per minime varianti formali o grafiche: 2 dil > del; 2 core > cuore; 10 ochi > occhi; 14 may > mai.
      La forma hoi, 1a pers. pres. di avere, osservabile qui a v. 5 e 7 con scripta hoy nei mss., risultante da una concrezione enclitica del pronome di 1a pers. sing. y’, mi risulta inattestata nel corpus OVI e non citata da Rohlfs, mentre in entrambi si registra il più frequente òe / òie (Rohlfs §541 n. 5): solo in una fase più tarda hoi riemerge come tipica del veneto con molteplici attestazioni (nel sec. XVI Maffio Venier, Canzoni e sonetti, p. 130, Quanto tempo s’aspetta v. 12 «Che hoi da far del viver che me avanza»; p. 217, Mi che son in amor v. 12 «Ma n’hoi pò causa d’esser desperà?»; Id., Poesie diverse, p. 139, Ha pur vogiù sta sorte v. 34: «Occhi, c’hòi pì da far de i fati vostri»; plurime occorrenze nelle commedie veneziane di Goldoni). Alla stessa area geografica indirizza la forma spieri che chiude il sonetto: varianti dittongate del lemma sperare occorrono infatti nel corpus OVI in testi indicati come di area trevis., padov., ven., tosc.-ven., tosc.-padov., tosc.-venez., tosc.-pad. (fra i testi in versi compaiono Niccolò de’ Rossi, Antonio da Tempo, Enselmino da Montebelluna, Giovanni Dondi dall’Orologio e Antonio Beccari).
      Al principio del v. 12 Solerti emendava che in [S]e, con un rattoppo che rendeva il testo, da difficoltoso che è, incomprensibile: ...sì sdegnati e fieri. | Se acerbo fine al mio duol morte fia, | ma fatemi etc.). Ma il testo tradito non richiede interventi neppure in questa ultima terzina, quantunque in effetti problematica perché può essere variamente interpretata e interpunta.
      Fra le possibilità, pare di poter escludere una struttura correlativa non... (v. 9) ma... (v. 13), da parafrasare “Non per mia colpa distogliete gli occhi da me, ma mi arrecate danno arditamente”: al v. 13 fateme dev’essere infatti imperativo, e non un indicativo con pronome enclitico (= me fate, “mi arrecate”), perché arditamente (TLIO 1.1) occorre in particolare proprio in contesti iussivi con il significato di “liberamente, tranquillamente” («Va’ arditamente» vuol dire pressappoco “Va’ pure”).
      Stabilito, perciò, che con questo imperativo ha luogo al v. 13 un periodo autonomo, è appunto la proposizione introdotta da che al precedente v. 12 a permettere diverse alternative: consecutiva con struttura correlativa ... (v. 11) che... (v. 12), “così sdegnati e crudeli che la morte sarà amara fine del mio dolore”, oppure indipendente esclamativa “...distogliete da me gli occhi così sdegnati e crudeli. Che fine amara la morte sarà al mio dolore!”. Delle due, entrambe plausibili, pare preferibile la prima: non solo in quanto, rispetto alla paratassi dell’altra, rinsalda la struttura sintattica, ma anche perché, conservando la contiguità argomentativa fra i due elementi (gli occhi che uccidono e l’incitamento a infierire ancora), ne rende più visibile la consequenzialità. Si noti – ed è dirimente – che un periodo che abbraccia i vv. 9-12, scavalcando il confine di strofa e isolando i vv. 13-14, quasi a cedere alla prima terzina il primo verso della seconda, ritorna analogo nel successivo SP165, suggerendo una propensione a articolare sintatticamente il sonetto in tre quartine e un distico.
      L’abbinamento a v. 14 di morte o mercé fra le speranze dell’io è centrato sul presupposto, implicito ma nondimeno evidente, che l’una o l’altra delle due hanno il potere di porre fine ai patimenti d’amore, come rende chiaro il confronto con la fonte Rvf 153, vv. 3-4: et se prego mortale al ciel s’intende | morte o mercé sia fine al mio dolore.
      Del pregnante sestetto si formula pertanto una proposta di parafrasi che espliciti i passaggi logici: “Non è per una colpa che ho commesso che i vostri occhi, pietosi e dolci verso tutti, vengono distolti da me, sdegnati e crudeli al punto da ferirmi a morte, che sarà amara fine del mio dolore. Ma continuate pure a infierire; come non smetterò mai di sperare nella vostra ricompensa amorosa, così trovo parimenti augurabile la morte, altro possibile rimedio ai miei patimenti”.