Schema metrico: sonetto ABBA ABBA CDC DCD
Due accidenti meccanici impattano sulla tradizione impedendo di precisare i rapporti tra i testimoni più autorevoli: a causa della caduta del fascicolo contiguo entro il quale doveva essere trascritto il seguito del testo, L122 è latore dei soli vv. 1-6 del sonetto; per parte sua, invece, Ts30 ha saltato i vv. 10 e 13. Si conferma invece lo stretto legame tra C
8 e V
3 (
μ) sulla base di un’ampia serie di lezioni caratteristiche, che due indizî permettono di considerare innovative. In primo luogo il testo dei vv. 5-8 tramandato dai due codici (
Hor fa del core et de la mente un fiume |
pien di pensieri alle virtù raccolti. |
Da disir [
disi C
8]
varii partiti, e da’ stolti [
disciolti C
8]
, |
qual vivon sempre in un bestial [
in bestial C
8]
nodrume) introduce una pausa forte dopo il v. 6 che risulta meno convincente dell’
enjambement attestato dai concorrenti (
che lavi sì i raccolti |
vani pensieri […]), come meno scontata sembra la stessa immagine, di derivazione biblica (
Ps. 51 (50), 4 «Amplius lava me ab iniquitate mea | et a peccato meo munda me»), della lavanda dell’anima, che è estesa anche ai pensieri già in un’occorrenza volgare di
Zanobi da Strada, Moralia, L. 9, cap. 32, p. 401: «[…] gli è bisogno che li nostri sozzi
pensieri prima
sieno lavati da pianto di timore, avanti che nel sacrificio egli possino essere incesi dallo amore di Dio». In secondo luogo, il fatto che al v. 6 i due testimoni di questo sottogruppo si dividano nel trattamento della rima, con V
3 fedele a
da’ stolti della restante tradizione, e C
8 che riformula
disciolti (da considerare come attributo di
disi), mostra che al v. 2,
stolti è lezione innovativa, e che C
8 interviene al v. 6 per evitare la rima identica. Dato il facile scambio
st- /
sc-, il quadro indiziario non dovrebbe essere intaccato dalla confluenza di L122 su
stolti al v. 2 (si ricordi che mancano i vv. 7-14, e che non è quindi possibile verificare se l’accidente abbia comportato un riassetto della rima): d’altra parte si tratterebbe dell’unico caso (tolto quello, ad altissimo tasso di poligenesi, del ricorso alla preposizione composta
in su, contro
su) di aderenza del testimone fiorentino a questo gruppo, a fronte di una incontrovertibile costante vicinanza al testo tramandato dai concorrenti Re
1 e Ts30. Ancora si potrà notare che al v. 2
gli ozi (
gli occhi gli altri) sembra una facile innovazione dovuta all’interferenza mnemonica con
Rvf 7, uno degli ipotesti del sonetto: «La gola e ’l somno e l’
otïose piume».
Per la lacunosità di L122 e la caduta di due versi in Ts30, l’editore non può che affidarsi a Re
1 applicando alcuni minimi accorgimenti. Nel primo emistichio del v. 3 si ristabilisce l’ordine delle parole imposto dalla maggioranza, senza tuttavia modificare gli aspetti formali del testo (
ho za veduto in basso): forte sarebbe la tentazione di accogliere, contro
μ,
n’ò, seguendo un suggerimento un po’ più difficile di Ts30 (
no gia ueduto basso) e L122 (
Inbasso no gia vedutj); restando tuttavia oscure le relazioni che intercorrono in questa zona della tradizione, è più prudente aderire alle caratteristiche del testimone base. Al v. 4 doveva sussistere un problema di lettura nella fonte del Reginense, che per questo ha trascritto
persevera sua vita (fraintendendo la catena grafica
perseverato in tal: facile lo scambio
inta(l) >
uita); il copista, accortosi poi della insensatezza del passo, ha rielaborato a suo modo, depennando le prime due parole del verso (
Che hano) e
sua vita, e riformulando il presente
persevera nel gerundio
perseverando lor, tramite l’aggiunta interlineare del morfema verbale e del pronome. Data la concordia della tradizione su questo punto, si riabilitano gli elementi estromessi dal Reginense e si correggono quelli evidentemente arbitrarî. Adiafora è l’alternativa 1
in su (
μ L122) /
su (Re
1 Ts30), ed è per questo ragionevole limitarsi a seguire il testimone base.
Al v. 9 il comportamento della tradizione invita a considerare genuina la lezione di Re
1 con dialefe d’eccezione tra
dire e
io, tanto più persuasiva se dopo
dire si apre un discorso diretto: si appianano infatti le divergenze se si considera l’introduzione di un’evidente zeppa in principio di verso, in Ts30 (
De non creder gia per dir), e la più fine, e perciò insidiosa aggiunta, di un
che in
μ (
non creder tu che per dir), come reazioni di natura ortofonica al fenomeno.
Ardua per contro la scelta della lezione al v. 11, ove si verifica un’opposizione netta tra Re
1 e
μ senza che Ts30 venga in soccorso per risolvere per l’una o l’altra testimonianza: la lezione del codice rossettiano è infatti mendosa, presentando l’ipometro
giamai dauer fama ne lodo. A rigor di logica, sembra si debbano considerare originali gli elementi
giamai, e la sequenza [monosillabo] +
pregio né lodo, ma se l’assenza di
giamai nel Reginense dimostra che parte della sua lezione non è genuina, il verbo
venire esposto in
μ non gode della conferma del codice triestino, e non si presenta dunque con maggiori garanzie, poiché potrebbe trattarsi anche in questo caso di un rimaneggiamento dettato da una condizione analoga a quella che avrebbe portato Re
1 a formulare
acquistar espungendo una sillaba da
giamai. Si potrebbe forse riformulare il tutto travasando in Ts30 gli elementi sicuri della tradizione e considerando il suo
giamai come trisillabo (
d’aver giamaï bon presio né lodo), ma un ircocervo restituito su indicazioni così poco stringenti non sembra poter contare su un’autorità paragonabile a quella di una lezione tràdita, sia pure senz’altro innovativa. Non sembra dunque possibile fare altro che seguire, sia pure con diffidenza e agnosticismo, la lezione (in sé perfettamente ricevibile) del testimone prescelto.
La «dispersa» fu resa nota dal possessore di Ts30, il triestino Domenico Rossetti (
Petrarca, Giul. Celso e Boccaccio, p. 387), che lo considerò, a causa delle lacune del codice, un madrigale: descripta di questa è l’edizione Sicca (n° 17 del censimento del Solerti); mentre non risulta la presenza del testo nell’ed. Carrer presunta dal Solerti (n° 19 del medesimo censimento). Nelle rispettive edizioni delle rime di Matteo Frescobaldi, il Manuzzi e il Carducci poterono ricorrere anche all’ausilio di V
3 (il secondo segue per lo più pedissequamente il primo editore, la cui opera non è tuttavia censita dal repertorio delle stampe del Solerti), ma la conoscenza di un nuovo testimone piuttosto che giovare alla critica ha improntato le due edizioni a un ingovernabile ibridismo. Tutti gli editori hanno sentito la necessità di correggere al v. 8 la voce
nodrume (
lordume Rossetti;
scostume Manuzzi, Carducci). Il lemma è effettivamente inattestato nei repertorî, ma presenta numerose occorrenze molto tarde (per lo più ottocentesche) sia isolato che nella polirematica
bestie da nodrume. Nell’attestazione più antica che è stato possibile rinvenire, nella
Regula de la villa da Monclasego in Soll, datata 1495 (Giacomoni,
Carte di regola, I, p. 300: «Item hano statuido et ordinado, se alchuna bestia in la malga fesse nodrume alcuno, se domandarà il latte quellui de chi sarà tal bestia, che il ditto nodrume sia comune; se il recuserà il latte, habia il nodrume, et quel medemo s’intende se ’l nodrume è fatto a casa […]»), è evidente il significato di ʻletameʼ; una parafrasi libera dei vv. 7-8 sarà dunque ʻ[…] e abbandona (
parteti da) quei pensieri che vivono mischiandosi alle cose più vili, come le bestie che vivono nel proprio letameʼ.
Al v. 2, l’aggettivo
sciolti vale ʻprivi di pudoreʼ, come chiosa bene (e con abbondanza di riscontri) il
GDLI, s.v. ʻScioltoʼ, 23: lo stesso repertorio segnala un’occorrenza dell’identico sintagma in
Sacchetti, Rime, 8, 8: «Lasciate dunque il corso agli occhi
sciolti»; varrà invece forse ʻricondotti alla ragioneʼ il lemma
raccolti (v. 6) attributo di
vani pensieri al verso seguente: il movimento sembra assimilabile a quello reso istituzionale dal modello petrarchesco, di una dispersione dell’anima che tramite una lenta e faticosa conversione cerca di espiare il suo errore.
Al v. 13 l’immagine del
nodo va ricondotta a un uso topico, e di antica attestazione in volgare, che vale a indicare uno stato di indecisione, incertezza o impedimento: basti il rinvio al
GDLI, s.v., 13 (con amplissima documentazione) e a
Rvf 119, 76: «Ruppesi intanto di vergogna il
nodo | ch’a la mia lingua era distretto intorno | su nel primiero scorno». Nello specifico si potrà parafrasare come ʻrompi ogni indugioʼ.
L’espressione proverbiale che chiude il sonetto,
non voler esser paglia senza spiga, è glossata forse in modo troppo unilateralmente negativo dal
GDLI, s.v. ʻSpigaʼ, 17, ʻ(non voler) essere un buono a nullaʼ. Il repertorio poggia la sua esplicazione su questa sola occorrenza, ma va rilevata l’evidente derivazione dal proverbio latino volgare
E culmo spica cognoscitur, a sua volta variazione del più noto
Ex fructu cognoscitur arbor che si incontra ampliamente variata anche nella tradizione evangelica (per tutto cfr. Tosi,
Dizionario sentenze, 147). Con più neutralità, la locuzione potrà essere parafrasata ʻnon perderti in una vita infruttuosaʼ.
Malgrado il prestigio degli autori implicati nella tradizione di questo sonetto, Petrarca e Matteo Frescobaldi, le indicazioni della
recensio suggeriscono senz’altro l’adespotia. L122 è il più esplicito da questo punto di vista, poiché fa seguire uno spazio bianco alla rubrica
Sonetto fecie. Semplicemente adespoto è il testo del Reginense, che lo accoglie in una raccolta di varia rimeria tre-quattrocentesca. D’altra parte la sistemazione che esso assume in C
8, entro una silloge adespota che però ordina in serie una buona parte della corrispondenza petrarchesca con Antonio da Ferrara (SC019b, SC021a-c, SC021b, SAL38, SC022a, SC022b-c), e in Ts30, alla fine di un Canzoniere, e prima dei
Triumphi, suggerisce che a un certo punto il sonetto doveva essere stato trascritto in un codice dei
Fragmenta e che per questo poteva essere alternativamente recuperato come presunto materiale petrarchesco. L’operazione del copista-postillatore del codice triestino, che fa del sonetto una reprimenda del Petrarca al genero Francescuolo da Brossano, è evidentemente autoschediastica, ma è indicativa dei processi interpretativi a cui sono soggetti questi materiali una volta venuti alle mani di lettori più creduli: emblematica è la reazione di un altro fruitore quattrocentesco del codice, il quale, dopo la canzone alla Vergine e il fortunatissimo SP121, sancisce l’esclusione del nostro sonetto dalla silloge apponendo l’explicit «Finis sonetorum». L’assunzione del testo entro il
corpus di Matteo Frescobaldi operata da V
3 ha seguito probabilmente strade analoghe, ma è più debole ancora di quella petrarchesca, che almeno poggia idealmente (seppur per mera poligenesi) su due testimonianze: unica e prodottasi in un ramo minore, non può essere ritenuta affidabile.