Testimoni:
γ
Pr1, f. 9v: F.P. (a.m.);
R939, f. 101vb: Sonetti fatti p(er) mes(ser) francescho petrarcha poeta fiorentino [attribuzione collettiva a f. 101ra].
Bibliografia: Solerti,
Disperse, p. 191; Debenedetti,
Per le disperse, pp. 99-100; Costa,
Il codice parmense, p. 73; Di Benedetto,
Col Petrarca minore (1949), pp. 68, 75.
Schema metrico: sonetto ABBA ABBA CDE DCE
La tradizione consta dei soli Pr
1 e R939, il secondo dei quali presenta l’attribuzione petrarchesca all’intera serie entro la quale il sonetto si colloca a f. 101ra (quella del Parmense, pure presente, è d’altra mano): ignoto al Solerti, che si limitò per questo a una trascrizione ammodernata del Parmense, il Riccardiano fu segnalato da Debenedetti,
Per le disperse, p. 99; il Di Benedetto afferma di non avervi potuto fare ricorso.
L’ampiezza della partitura sintattica, che incatena i versi in una struttura monoperiodica (sul modello di
Rvf 100; 213; 224; 351, su cui cfr. Renzi,
Sintassi continua; Tonelli,
Varietà sintattica, pp. 35-39), ha prodotto due errori tenui, ma che fanno il paio con indizî di un rapporto di collateralità tra i due testimoni verificabile in altri testi condivisi dalle due sillogi, tali dunque da confermare la derivazione da un archetipo (
γ): al v. 3 le due forme alternative del verbo ʻsolereʼ
solien Pr
1 /
soglio R939 hanno a monte il più ovvio
solo (naturale, in questo contesto, il richiamo di
Rvf 35, 1 «Solo et pensoso i più deserti campi»); al v. 4 si riconosce dietro
agli occhi, anche sulla scorta della tessera petrarchesca soggiacente (
Rvf 354, 6 «luoghi da sospirar riposti et fidi») il sintagma
a’ lochi, prodottosi probabilmente a partire dalla
scriptio continua alochi, analizzabile nel contesto immediato sia come
a’ lochi che come
a l’ochi. Entrambe le congetture erano state già formulate da Di Benedetto; ci si discosta però da lui, per le ragioni addotte, nella forma piena della preposizione
ai (
lochi), pure ammissibile, ma che risulta meno efficace per la ricostruzione dell’eziologia dell’errore, e non accogliendo la congiunzione da lui introdotta al v. 3
solo e con più sospir, superflua.
Altre proposte testuali dello stesso studioso sono invece da respingere. In primo luogo la banalizzante 8
posti, dato che
costi, solidamente radicato nel testimoniale, è attestato nel
San Brendano pis., per indicare il ʻfianco di un’imbarcazioneʼ, cfr. p. 44: «Sancto Blendano et quelli che co llui erano sensa ferramenti feceno una navicella levissima con
costi et colonne di legno chiamato ʻinoʼ», registrato dal
TLIO, s.v. ʻcosto (3)ʼ, repertorio nel quale la nostra occorrenza è pure presente, ma associata meno persuasivamente alla definizione di ʻ
costo (2)ʼ, ʻpianta aromatica che fornisce una radice usata in profumeriaʼ: nel caso in esame sembra più ovvio interpretare ʻfianco di un monteʼ, e dunque ʻpendioʼ, significativo recupero lessicografico di una sfumatura semantica altrimenti priva di testimonianze. Neppure si può accogliere contro l’accordo della tradizione il «restauro stilistico» 13
e con sì dolci errori, una correzione di gusto dovuta a un’ingiustificabile idiosincrasia per la sintassi asindetica (che non è estranea ai sonetti monoperiodici del Petrarca, cfr.
Rvf 213, 14: «co i sospiri soave-mente rotti: da questi magi trasformato fui»;
Rvf 351, 13: «Or preso a confortar mia frale vita: questo bel varïar fu la radice | di mia salute, ch’altramente era ita»).
Dubbi su un’ulteriore possibile traccia d’archetipo si presentano al v. 5
chiamar el bel nome Pr
1 /
channo ilbelnome R939, con
bel possibile zeppa, se l’identico attributo è associato agli occhi di madonna, nominati al v. 7 con diversa distribuzione e caso grammaticale del sintagma coinvolto:
de gliocchj bellj (Pr
1) /
dabegliocchi R939: nella fonte potrebbe dunque essere insorta l’esigenza di porre rimedio a un problema prosodico, come potrebbe confermare la diversa estensione sillabica che i due copisti sembrano aver attribuito ad alcune voci in punti diversi del verso, con Pr
1 che presenta
chiamar (
channo R939) e
disposti (
postj R939), mentre il suo antagonista si serve della forma piena
chapelli (
chape Pr
1). Si potrebbe anche obiettare che già al v. 2 l’autore non si dimostrerebbe particolarmente sensibile a istanze stilistiche di
variatio, data la coppia
pensier (v. 1) /
penso (v. 2) in sede incipitaria, ma mentre queste occorrenze sono giustificabili come
adnominatio, e dunque come consapevole scelta tecnica, la coppia
bel /
belli mantiene il suo aspetto di trascuratezza. In assenza di elementi più solidi la questione resta irresolubile ed è più prudente serbare fedeltà alla tradizione.
Così restituito il testo, e considerata una pausa logica e ritmica forte al v. 5, dopo
el bel nome, sembra necessario individuare un ulteriore errore al v. 6,
a quella <
e quella (con facile scambio, ma insidioso e difficilmente sanabile da un copista, vista la complessità della struttura monoperiodica): dato infatti che al v. 12 si ha un aggettivo femm. sing. (
lieta) e un verbo pure al singolare (
si suole) l’antecedente che regge la testura verbale dell’intero periodo (9
chiarir, 10
trasparir, 11
balenar, 13
lustrar, 14
m’abaglia) deve rispondere allo stesso genere e numero, e necessariamente sarà dunque l’
aura (v. 7), oggetto a sua volta di
veder mi par (v. 8);
aura che, differentemente dall’uso petrarchesco, andrà interpretata latinamente come ʻluceʼ, anziché come ʻbrezzaʼ. La struttura portante del periodo s’impernia dunque secondo gli snodi seguenti: ʻQuando talora i miei pensier nascosti penso scoprir… chiamo il bel nome; e i capelli d’or e l’aura… veder mi par (chiarir ecc.)…: in così dolci errori m’abaglia ’l cor…ʼ. Fin dall’
incipit in cui i
pensier nascosti riecheggiano l’identico sintagma, pure in clausola di verso, di
Rvf 125, 58 («a partir teco i lor penser’ nascosti»), sono evidenti le riprese dai
Fragmenta; notevole semmai che l’unico testo recuperabile dai corpora con identico attacco sia l’estravagante del codice degli abbozzi
Quando talor, da giusta ira commosso (Paolino,
Abbozzi, 57 [E4]), di tradizione non abbondante; certo non si può escludere che a fornire uno spunto sia stato piuttosto
Rvf 179,
Geri, quando talor meco s’adira. I riscontri non mancano neppure per i versi successivi: 2
valle oscura ha la sua controparte in chiasmo in
Rvf 28, 11
oscura valle, anch’essa luogo solitario di lamenti (toccato da un confortante «vento occidentale»); 5
chiamo il bel nome ripropone il modulo di
Rvf 5, 1-2 («Quando io movo i sospiri a chiamar voi, | e ’l nome che nel cor mi scrisse Amore»); la struttura anaforica
or… or, non rara nel Canzoniere petrarchesco, è impiegata con pari assiduità in
Rvf 112. I
capelli d’or del v. 5 richiamo uno dei sintagmi più frequenti per definire un tratto delle grazie di Laura (basti il celeberrimo di
Rvf 90 «Erano i capei d’or a l’aura sparsi»). Molto altro si potrebbe aggiungere, ma andrà quantomeno riconosciuto un possibile rapporto con
Rvf 194, 8-14 testo ancora incentrato sulla luce del sole-Laura che
abbaglia il poeta e con
Rvf 107, 1-11 dove la luce abbacinante (v. 8
m’abbaglian) promana dai begli occhi (v. 2) dell’amata.
In caso di adiaforia si segue a testo la lezione di R939, a dispetto del giudizio perentorio del Debenedetti che reputò il codice «di ben poco pregio» (
Per le disperse, p. 99). Si respinge dunque 9
lampeggiar ne’ fiori che figura nell’ed. Solerti (seguita dal Di Benedetto, che predilige la testimonianza del Parmense) sulla scorta di Pr
1 lampeggiarne fiorj a favore del parallelismo sintattico inf. + sost. pl. e soprattutto del conforto di
Par. XIV, 104 «che quella croce lampeggiava Cristo», che fino ad oggi non disponeva di occorrenze di supporto (cfr.
GDLI, s.v., 9;
TLIO, s.v., 2.1;
VD, s.v., 1: è forse preferibile però al senso ʻfar risplendereʼ proposto dai repertorî, quello di ʻirradiare con una luce intensaʼ). Ci si è discostati però dal testimone base per 12
suole che pare più consono al contesto e ha il vantaggio di produrre una rima paronomastica (:
sole, v. 12).
L’attribuzione petrarchesca si fonda sul solo
γ e resta dunque sospetta, tanto più una volta constatato il diverso valore che assume il
senhal dell’
aura rispetto all’uso dell’autore. Notevole tuttavia che Pr
1 e R939 incastonino il sonetto tra testi diversi del Canzoniere (o ad esso legati): il primo lo situa tra
Rvf 288 e
Rvf 33 entro un’amplissima scelta dei
Fragmenta; il secondo tra
Rvf 35, uno dei sonetti dai quali il nostro trae ispirazione, e quello di Giacomo Colonna,
Se le parti del corpo mio destrutte.