ES38

   Quando la notte la sua fuga plora,

quello stridor m'acora

che nel cupo metallo forma †crinno†,

udir  Lascia la posae va' lavora;

se noneacqua di gora

e briccia in terra la tua cena finno


   Io mi prottendoma più ch'una mora

grave a levarmi ancora

combatte mecoleverommino?

Così passo la terza e lla non' ora

diciendo pur  Nonn ora 

fin che per mio mestier tutto m'aninno.


   Poi esco a pezzo a pezzo del †poriglio†

e pur mi ragroviglio

sopra la calda impronta e †fo di bigro†

...................... [-igro]

po' ch' al cor meco scaldo lo stoviglio

e pur dal fuoco a ciener m'agroviglio,

finché gli à fatto nigro,

e così vivo nighittoso e pigro.


Testimoni:
As2, f. 26v: Sonetto dimess(er) franciescho petrach(i).

Bibliografia: Debenedetti, Per le disperse, p. 100.

Schema metrico: sonetto rinterzato AaBAaB AaBAaB CcD[d]CCdD.

La lezione tradita risulta problematica nelle parole-rima, la sede stessa dove la fissità della terminazione generalmente interdice escursioni e anzi agevola facili restauri: ma il paradosso è solo apparente, perché è proprio il tentativo del testo di escogitare rime care, conseguendo una deliberata difficoltà, a comportare oscurità e incomprensioni, e di conseguenza errori.
A v. 3 è infatti evidente la difficoltà del copista, che trascrive una parola che, solo aiutandoci con la rima in -inno, parrebbe di potersi leggere ȼrinno, di cui la prima lettera è un carattere che non si impiega altrove (forse una c biffata verticalmente, o una i lunga con titulus, o ancora una z): non mi risulta possibile emendare soddisfacentemente questo lemma, che dovrebbe denotare uno strumento che produce stridore nel cupo metallo della campana (il batacchio?).
Ritocco a v. 6 abriccia del ms. in e briccia, forma del lemma “breccia” rara ma attestata.
Non attestata è invece al v. 13 la parola rima poriglio: un’ovvia correzione periglio non sembra compatibile con il contesto, né d’altronde spiegherebbe l’incidente. Il corpus LirIO offre un’occorrenza di boriglio in Francesco di Vannozzo (30 v. 7 [5018.43]; vd. pure Medin, Francesco di Vannozzo, p. 291), nel significato di “punzone” qui assolutamente non pertinente. L’emendamento calzante tanto per il senso quanto per la rima è senz’altro giaciglio, presente nel TLIO solo come voce ‘fuori corpus’ ma nondimeno attestato: ci si astiene tuttavia dall’accogliere una lezione che rischia di voler ‘migliorare’ il testo, e si preferisce non sacrificare poriglio nell’eventualità, non del tutto da escludere, che si tratti di un lemma raro.
Al v. 15 in fo di bigro, in un contesto di “grovigli” (v. 14, v. 18), è verosimile intravedere una forma legata al verbo disbrigare, forse fo di[s]bigro con metatesi di r, ma di nuovo inattestata.
Fra il v. 15 e quello seguente il testo responsivo reca un settenario che qui manca. Nulla impone che questi due stravaganti sonetti, eccentrici anche metricamente come si dirà subito, si rispondessero per le rime in modo perfetto: tuttavia il salto logico che da tale luogo si avverte suggerisce di propendere per la presenza di una lacuna.
Come il responsivo che segue, il testo è un sonetto rinterzato, nella tipologia che Biadene (Morfologia del sonetto, partic. pp. 54-55) definisce genericamente ‘degenerata’, con fronte in quartine regolari e sirma di cinque soli endecasillabi, indivisa perché a rigore non c’è modo di individuare un confine fra due terzine. Sono rime difficili B, C e D; si segnala la rima composta sì no a v. 9.
6 e briccia] abriccia